Nei roditori e nell’uomo, la carenza di vitamina D (VDD) è associata all’alterata struttura e funzione degli spermatozoi (principalmente ridotta motilità e anomalie morfologiche) che sono principalmente attribuite all’ipocalcemia indotta dal VDD.
Tuttavia, si sospetta che la carenza di vitamina D abbia effetti molto più drastici sugli spermatozoi di mammifero.

Obiettivi

Lo scopo di questo studio era di illustrare che la carenza di vitamina D, a seconda della sua gravità e durata, può alterare l’integrità nucleare degli spermatozoi e può anche portare alla perdita della capacità degli spermatozoi di sostenere lo sviluppo embrionale.

Materiali e metodi

Un modello murino di VDD indotta che combina l’azione di una dieta carente di vitamina D, la limitazione dell’esposizione ai raggi UV e le iniezioni di paricalcitolo; un analogo della vitamina D2 che catabolizza la vitamina D endogena aumentando l’espressione del CYP24A, un membro della famiglia del citocromo P450, è stato utilizzato per creare diversi gradi di VDD.

Risultati

Lo studio ha dimostrato che il difetto più significativo registrato riguarda l’integrità del nucleo paterno, che è sia decondensato e frammentato in situazioni di VDD da moderata a grave. Coerentemente con le conseguenze note della fecondazione con spermatozoi danneggiati dal DNA, si dimostra che la VDD paterna riduce la capacità degli spermatozoi di supportare in modo ottimale la fecondazione e lo sviluppo embrionale.

Discussione e conclusione

Data l’elevata prevalenza mondiale di VDD nell’uomo e sebbene ottenuta in un modello animale, i dati qui presentati suggeriscono che i maschi sub-fertili / infertili potrebbero trarre beneficio dai test VDD e che i tentativi di correggere i livelli sierici di vitamina D potrebbero essere considerati prima del concepimento, naturalmente o tramite ART.

 

Fare lo spuntino di metà mattina e di metà pomeriggio ha una doppia valenza ed importanza:
1) arrivare a pranzo e cena meno affamati;
2) mantenere il metabolismo sempre attivo.
È possibile fare uno spuntino con frutta fresca di stagione, yogurt, frutta secca, frullato, parmigiano, toast ecc.
Educarsi a mangiare in modo corretto è un atto d'amore verso se stessi.

La cura con il plasma dei guariti dal Coronavirus sta dando risultati promettenti.
Il trattamento, avviato negli ultimi giorni di aprile anche all'ospedale Annunziata di Cosenza, rappresenterebbe, al momento, quello più efficace e sicuro per combattere il Covid-19.
Sull'argomento, conosciuto in termini scientifici come plasmaferesi, abbiamo ascoltato il parere del professore Bruno Amantea, docente onorario di Anestesia e Rianimazione, Terapia Intensiva e Medicina del dolore all'Università Magna Graecia di Catanzaro.
«L’unica terapia che abbiamo per uccidere il virus – afferma l’illustre medico - è la somministrazione del plasma prelevato a pazienti positivi sintomatici guariti. È una terapia che il professore Giulio Tarro, scienziato e virologo di fama mondiale, ha proposto sin dalle prime fasi del contagio. Questo trattamento – informa Bruno Amantea - è conosciuto da molto tempo. Il semplice principio su cui si basa è la somministrazione al paziente di un quantitativo di anticorpi in grado di neutralizzare il virus. Gli studi di Mantova e di Pavia hanno dimostrato che funziona anche sui pazienti ricoverati in terapia intensiva, già sottoposti a ventilazione meccanica. 200 o 300 millilitri di plasma sono in grado di uccidere il virus in pochissime ore. Le giuste riserve che il professor Tarro esprime sul vaccino – conclude il medico - riguardano il principio su cui si basa il funzionamento dello stesso. La somministrazione di un qualsiasi vaccino, determina infatti nei soggetti la produzione di anticorpi che quando prodotti, e solo allora, sono in grado di attaccare il virus. Con la somministrazione del plasma, invece, somministriamo già gli anticorpi».

Tumore alla prostata: eiaculazioni frequenti possono allontanare il rischio

 

 

 

 

Prevenire il tumore della prostata (la neoplasia più frequente tra gli uomini: 35mila le diagnosi effettuate nel 2015) facendo sesso.revenire il tumore della prostata (la neoplasia più frequente tra gli uomini: 35mila le diagnosi effettuate nel 2015) facendo sesso.

Si potrebbe riassumere in questo modo l’indicazione che emerge da una ricerca appena pubblicata sulla rivista «European Urology». Lo studio, condotto da sei ricercatori dell’Università di Harvard, ha evidenziato l’effetto benefico dell’eiaculazione - ovvero l’emissione di liquido seminale attraverso l’uretra - nella prevenzione del carcinoma della prostata. La notizia va però interpretata. La fonte che l’ha riportata è autorevole, ma il riscontro oggettivo è ancora privo di una spiegazione scientifica.

Grande eco negli Stati Uniti per questa ricerca

Potranno essere felici gli uomini, a seguito della scoperta ottenuta dopo aver portato a termine uno studio durato diciotto anni e condotto su 31925 uomini. Il lavoro rappresenta la trascrizione di una ricerca presentata durante l’ultimo congresso annuale della Società americana di urologia, che già al suo «debutto» acquisì una grande eco. S’è trattato di un lavoro prospettico, iniziato nel 1992 e concluso nel 2010 arruolando uomini che (in media) avevano 59 anni. Durante il lungo follow-up, 3839 persone si sono ammalate di un tumore alla prostata, rivelatosi poi letale in 384 casi. All’inizio dello studio, però, tutti i soggetti coinvolti erano stati invitati a compilare un questionario in cui indicare la frequenza media mensile delle eiaculazioni registrate in tre periodi della propria vita: tra i 20 e i 29 anni, tra i 40 e i 49 anni e nei dodici mesi precedenti l’avvio della ricerca.

Rischio inferiore anche del 20%

Partendo da questi dati, e incrociandoli con i riscontri epidemiologici ottenuti nel corso dell’osservazione, i ricercatori hanno potuto ottenere quelle che hanno definito «le prove più forti a sostegno del ruolo preventivo che l’eiaculazione gioca nei confronti del tumore alla prostata».

Janet Stanford, ricercatore del Fred Hutchinson Cancer Center di Seattle, non coinvolto nello studio, ha però smorzato i facili entusiasmi. «Associazione non vuol dire causalità: occorre essere cauti circa l’interpretazione di questi dati». Quali sono state le evidenze? Il rischio di ammalarsi di tumore alla prostata è risultato più basso del venti per cento tra gli uomini eiaculavano con «alta frequenza» (21 volte al mese). Ma anche un minor numero di occasioni ha avuto la sua efficacia.

Una possibile spiegazione

Non è la prima volta - su La Stampa se n’era parlato già un anno e mezzo fa - che la frequenza dell’attività sessuale viene correlata a un minor rischio di ammalarsi di tumore alla prostata. In effetti già altre ricerche avevano portato a galla il beneficio.

Ma perché fare sesso con regolarità promuoverebbe la salute della ghiandola dell’apparato genitale maschile? Frequenti eiaculazioni - è l’ipotesi più accreditata all’interno della comunità scientifica - ridurrebbero la concentrazione di sostanze potenzialmente dannose e cancerogene presenti nel fluido prostatico. Al contrario, l’astinenza prolungata sarebbe responsabile del «ristagno» delle secrezioni nell’organo: da qui un rischio più alto di infezioni, considerate un terreno fertile per l’alterazione dei meccanismi di replicazione alla base della neoplasia.

I consigli per una prostata in salute

In attesa che dalla comunità scientifica giungano (o meno) conferme a questi risultati, le raccomandazioni per mantenere la prostata in salute riguardano innanzitutto lo stile di vita. Senza alcol e fumo, limitando il consumo di alimenti ricchi di grassi saturi ed eccessivamente speziati, bevendo almeno due litri di acqua al giorno e ritagliandosi il tempo per l’attività fisica (almeno un paio di volte alla settimana), si può ridurre il rischio di ammalarsi. Prima si comincia a seguire questi consigli e meglio è, ma per imboccare la via della prevenzione non è mai troppo tardi. 

«Correggere le proprie abitudini presenta enormi vantaggi, anche se in un’età matura - afferma Giuseppe Procopio, responsabile della struttura di oncologia medica genitourinaria all’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano -. Negli anziani il rischio di cancro è quaranta volte più alto rispetto alle persone di 20-40 anni e quattro volte maggiore rispetto a quelle di 45-65 anni. Gli stili di vita sani hanno effetti preventivi, e aiutano a rispondere meglio alle terapie e ad abbassare il rischio di recidiva quando si è colpiti dalla malattia».

 

Fabio Di Todaro

 

 

Mammografia: che cos’è e perché va fatta

 

Per una corretta prevenzione uno degli strumenti a disposizione è la mammografia, che permette lo screening per la diagnosi precoce del tumore mammario.

Il tumore al seno è il più frequente nel sesso femminile: ogni anno in Italia vengono diagnosticati 48.000 nuovi casi. I continui progressi della medicina e gli screening per la diagnosi precoce hanno permesso che l’incidenza dei decessi diminuisse.

Un ampio studio pubblicato nel settembre 2012 sul Journal of Medical Screening ha mostrato che la mortalità si riduce del 25% per le donne che si sottopongono allo screening.

La prevenzione: quando e come va fatta

La prevenzione deve cominciare a partire dai 20 anni con l'autopalpazione eseguita con regolarità ogni mese.

È indispensabile, poi, proseguire con controlli annuali del seno eseguiti dal ginecologo o da uno specialista senologo affiancati alla mammografia biennale dopo i 50 anni o all'ecografia, ma solo in caso di necessità, in donne giovani.

 Tra i 20 e i 40 anni generalmente non sono previsti esami particolari, se non una visita annuale del seno dal ginecologo o da un medico esperto. Solo in situazioni particolari, per esempio in caso di familiarità o di scoperta di noduli, è possibile approfondire l'analisi con una ecografia o una biopsia (agoaspirato) del nodulo sospetto. La mammografia non è raccomandata perché la struttura troppo densa del tessuto mammario in questa fascia di età renderebbe poco chiari i risultati.

 Tra i 40 e i 50 anni le donne con presenza di casi di tumore del seno in famiglia dovrebbero cominciare a sottoporsi a mammografia, meglio se associata a ecografia vista la struttura ancora densa del seno

Tra i 50 e i 69 anni il rischio di sviluppare un tumore del seno è piuttosto alto e di conseguenza le donne in questa fascia di età devono sottoporsi a controllo mammografico con cadenza biennale.

Nelle donne positive al test genetico per BRCA1 o 2 è indicata un'ecografia semestrale e una risonanza annuale, anche in giovane età Anche se la mammografia rimane uno strumento molto efficace per la diagnosi precoce del tumore del seno, oggi sono disponibili anche altre tecniche diagnostiche come larisonanza magnetica (ancora limitata a casi selezionati), laPEM (una tomografia a emissione di positroni - PET - specifica per le mammelle) e un nuovo esame già definito il Pap-test del seno che consiste nell'introduzione di liquido nei dotti galattofori (i canali attraverso i quali passa il latte) e nella successiva raccolta di questo liquido che porta con sé anche alcune cellule.

La mammografia è una radiografia in cui si comprime il seno tra due lastre per individuare la presenza di formazioni potenzialmente tumorali. Viene quindi eseguita quando alla palpazione della mammella si avverte la presenza di un nodulo oppure ci sono altri segnali che richiedono un approfondimento diagnostico.

La mammografia è inoltre effettuata come test di screening per cercare di scoprire la malattia prima che si manifesti.

Alcune donne trovano dolorosa la compressione delle mammelle tra le due piastre dell'apparecchiatura per la mammografia, ma il disagio dura solo il breve tempo necessario per l'esame.

 

Dire donna

Francesca Romana Buffetti 

5 febbraio 2016

 

 

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