Il 2021 è l'anno delle grandi celebrazioni per i 700 anni dalla morte di Dante Alighieri, Sommo Poeta, forse il più grande di sempre e di tutti, padre della lingua italiana. Infatti la "Divina Commedia" è il testo base della lingua italiana e Dante è un simbolo del "mondo italiano", molto prima dell'unità politica del Paese.
La Calabria si può riconoscere nella suprema arte dantesca attraverso due personaggi: "Il pastor di Cosenza" ("Purgatorio", Canto III) e Gioacchino da Fiore ("Paradiso", Canto XII).
Nel Canto III del "Purgatorio", Dante incontra le anime degli scomunicati, tra cui Manfredi, che, nei vv. 124-132, dice: "Se 'l pastor di Cosenza, che alla caccia/ di me fu messo per Clemente, allora/ avesse in Dio ben letta questa faccia,/ l'ossa del corpo mio sarìeno ancora/ in co del ponte presso a Benevento,/ sotto la guardia della grave mora./ Or le bagna la pioggia e move il vento/ di fuor dal regno, quasi lungo il Verde,/ dov'è le trasmutò a lume spento." ("Se il vescovo di Cosenza, che allora fu mandato in cerca del mio cadavere, avesse ben valutato questo aspetto di Dio, le ossa del mio corpo sarebbero ancora a un'estremità del ponte presso Benevento, sotto la custodia del pesante cumulo di pietre. Ora le bagna la pioggia e le smuove il vento fuori del regno di Napoli, quasi lungo il fiume Liri (che segnava il confine tra il Regno di Napoli e lo Stato della Chiesa), dove egli le fece trasportare a luci spente).
Manfredi (1232-1266) era figlio di Federico II di Svevia. Alla morte del padre, nel 1250, appena diciottenne, assunse di fatto il governo del regno di Sicilia fino all'arrivo del fratello Corrado IV, legittimo erede. Quando questi morì, Manfredi, col pretesto di tenere la reggenza per il piccolo Corradino, si fece incoronare a Palermo (1258) re di Napoli e di Sicilia. Scomunicato da papa Innocenzo IV, tutore di Corradino, Manfredi cercò di riunire intorno a sé le forze ghibelline italiane contro la Chiesa, nel tentativo di conquistare l'intera penisola. I Ghibellini erano i sostenitori dell'imperatore, i Guelfi, invece, quelli del papa. Preoccupato per la vittoria dei Ghibellini a Montaperti (località a sud di Siena), nel 1260, il papa francese Urbano IV chiamò in Italia Carlo I d'Angiò, affinché ne occupasse il regno. Carlo accettò l'invito e, sceso in Italia, venne incoronato re d'Italia nel 1265; il 26 febbraio 1266 Carlo affrontò e sconfisse a Benevento l'esercito di Manfredi, che morì in battaglia.
Il dantesco "pastor di Cosenza" è Bartolomeo Pignatelli (1200 circa-1272 circa), vescovo di Cosenza (1254-1266). Passato il Regno di Sicilia nelle mani degli Angioini, il Pignatelli fu nominato arcivescovo di Messina (1266-1272). In questa occasione si inserisce l'episodio dantesco su Manfredi. Il Pignatelli, con , il consenso di papa Clemente IV, profanò il cadavere di Manfredi, che rimase ucciso in battaglia; tornando da Roma per recarsi a Messina (settembre 1266), egli dissotterrò il corpo di Manfredi dal tumulo di pietre sotto il quale i soldati francesi lo avevano sepolto per onorarne l'eroismo, benché fosse stato un nemico; quindi, trasportandolo a candele rovesciate e spente, come si faceva con gli scomunicati e gli eretici, ne disperse i resti al di fuori dei confini dello Stato della Chiesa, probabilmente presso il fiume Liri, che era detto "Il Verde".
Dante colloca Manfredi nel Purgatorio, mentre l'opinione comune riteneva dovesse trovarsi senza dubbio tra i dannati, essendo egli morto scomunicato. Nel dialogo con il poeta, Manfredi prega Dante, quando ritornerà sulla terra, di riferire a sua figlia Costanza che egli è salvo, contrariamente a quanto laggiù si pensa. Egli infatti afferma di essersi pentito e convertito all'ultimo istante, in punto di morte e, nonostante le sue orribili colpe, di aver ricevuto il perdono dell'infinita misericordia divina. Col proprio sincero pentimento, rivolto in extremis a Dio, Manfredi ha ottenuto quella salvezza che la Chiesa gli aveva negato con la scomunica. Manfredi è salvo: per le scomuniche non si perde la possibilità della salvezza, sostiene l'anima del re, perché, spesso, neanche la Chiesa arriva ad immaginare e concepire l'infinita bontà divina.
Giuseppe Pizzuti, docente
Cosenza, il castello Normanno-Svevo