Saggio in prosa a cura di F.VETERE
INTRODUZIONE
Il pensiero gioachimita permea significativamente la Divina Commedia dantesca, più di quanto si possa di primo acchito pensare, ovvero in riferimento alla citazione contenuta nei vv. 140/141 del Canto XII del Paradiso.
In particolare, la simmetria geometrica delle tavole iconografiche, disegnate da Gioacchino nel Salterio decacorde e pregne di arcani significati, affascinano a tal punto Dante, che soprattutto nella Terza Cantica rivivono in tutto il loro fascino originale.
Allegoria e simbologia sono figlie di un'unica matrice interpretativa, fondamentalmente cara al Divin Poeta, e che dal mistico Abate ricevono nuova linfa attraverso una forte dimensione spirituale ed ermetica.
Lo spirito libertario e innovatore di Gioacchino viene pienamente condiviso da Dante, che pur velatamente manifestandolo si limita ad una apparente e scarna definizione dell'Abate, tracciandone comunque un'alta valenza esegetica, specie quando afferma ciò negli immortali versi: "Lucemi dallato il calavrese abate Giovacchino di spirito profetico dotato ".
Il Mistico calabrese non a caso viene collocato nel Cielo del Sole, dove la Luce impera sovrana, inondata da una suggestiva Armonia che avviluppa tutto ciò che gli occhi riescono a catturare.
Prima S. Tommaso e poi S. Bonaventura sono i primi attori dei Canti dove si sublimano le figure di S. Francesco e S. Domenico che, comunque, pur nella loro grandezze, non sottraggono luce a Gioacchino, poiché Dante lo fa risplendere come una " luce nella luce".
È qui che si coglie il vero significato della Luce, come se tale simbolo assommi in sé ciò che è più splendente della Luce stessa, magnificando tutta la divina atmosfera che viene intensamente illuminata in una cornice di maestosa bellezza.
Dunque Gioacchino, pervaso da una fonte luminosa pari a quella degli altri illustri Beati, assume i contorni di un Grande tra i Grandi, e la sua collocazione è la giusta mercede che Dante vuole, a giusta ragione tributargli per la sua originale ed innovativa filosofia esistenziale.
Il Poeta utilizza la ricca simbologia della Luce quale essenza di quell'influenza spirituale che l'Abate florense ha diffuso attraverso i suoi continui richiami allo spirito, all'intelletto ed alla speranza salvifica, e che costituiscono i cardini della Terza Età della Storia come riferimento per la salvezza dell'umanità mediante l'esegesi della parola di Dio.
Dalla disamina testé effettuata, a giusta ragione si ritiene che Dante conosca perfettamente la matrice interpretativa che forgia le opere dell'Uomo venuto da Celico, poiché Questi è annoverato tra coloro che hanno studiato e acquisito cristiani elementi emetici, rivisitati anche in chiave non dogmatica.
Una forte dimensione di misticismo ermetico è presente in alcune confraternite iniziatiche medievali, tra le quali i Fedeli d'Amore, di cui fanno parte Dante e Guido Cavalcante, motivati entrambi da forte passione per l'esegetica interpretativa a matrice ermetica, proprio quella tracciata e diffusa da Gioacchino.
PARTE INTERMEDIA
GIOACCHINO da FIORE
Mente illuminata negli Evi della Storia.
Lo stesso Gioacchino non vuole essere definito profeta illuminato ( "Non voglio sembrare ciò che non sono....nolo videri quod non sum " ), a riprova che la sua umiltà supera qualunque velleità di penetrare nei Segreti Trinitari....in particolar modo il presagio dell'Era dello Spirito Santo, di cui non preconizza tempi precisi ma solo ne intuisce il prossimo Avvento.
Ancora oggi un velato stupore si concentra su quest'uomo, che pur dotato di grande umiltà e profonda spiritualità, è riuscito ad elevarsi intellettivamente a tal punto da onerarsi di un compito così impegnativo quale il commento del Libro apocalittico dell'Evangelista.
Si può asserire con precisa cognizione di causa che la vivifica Luce divina gli illumina la mente onde esaltare le sue capacità esegetiche, espresse nel decriptare passi profetici oscuri, specie quelli contenuti nell'Apocalisse di Giovanni.
Gioacchino dimostra grande talento percettivo, tale da travalicare i limiti dell'umana conoscenza, frutto di certosina sistematicità negli studi che fortifica il suo spirito sin dalla giovane età, particolarmente quando indosserà l'abito eremitico dopo lunga permanenza in Oriente.
Alla luce di quanto sopra, matura una propria concezione di Teologia storica che si fortifica nell'estatica visione dell' altopiano silano, dove trascorre un'esistenza in perfetta solitudine e profonda meditazione, alla stregua dei Monaci greci di Calabria, la cui ascetica vita immersa nel silenzio lo affascina.
Egli è un cultore della vita dei Santi, che a quei tempi assurge ad oggetto di appassionati giudizi, anche perché un intenso pathos avvolge la vita dei Martiri cristiani ed al significato del loro trapasso come inizio della vita eterna.
Nel paradiso verde della Sila, circondato da contrafforti montuosi dal fascino solenne concretizza la sua idea di un primo nucleo cenobitico, ad immagine di un'eterea Gerusalemme, decodificata dal libro dell'Apocalisse.
La sua anima latina, corroborata da condivisa esistenza con l'ascetismo greco-bizantino, lo spinge ad abbracciare lo spiritualismo monastico cistercense, più compatibile con la sua nuova scelta di vita.
Anche se una diatriba liturgica-istituzionale contrappone il clero latino e greco, tuttavia ciò non condiziona l'amalgama spirituale fra le due comunioni, tanto che tale tregua amalgamera' le rispettive istanze di pensiero, di cui l'Abate se ne avvarrà proficuamente.
Il monachesimo greco, scevro di ricchezze ma pregno di valori fondati sulla povertà e preghiera. lo avvince, nonostante il disagiato modo di vivere. Nilo da Rossano, pioniere del monachesimo basiliano diviene per Lui fulgido esempio da imitare.
Gli esempi dei monasteri greci generano in Gioacchino il desiderio di fondare un Cenobio abbaziale florense in quel di S. Giovanni.
In questo contesto trova giusta collocazione un centro dove conservare la tradizione monastica come elemento di raccordo della realtà storica presente con il passato, in modo da tramandare incontaminata la sua rilevanza nel tempo.
La cultura dell'Abate florense è il momento della dimensione dello spirito attraverso il sentimento, formatasi valorizzando i passaggi più incisivi dei suoi empiti emotivi, per trasferirli poi ai bisogni dell'umanità.
Proprio da profonda analisi dei sentimenti che pulsano nella mente di Gioacchino si può testare l'anelito di esaltare nell'uomo il desiderio di sempre più conoscenza, lanciando un significativo messaggio che non si limita al risultato ma al bisogno dell'anima di intendere e definire gli evi della storia umana sotto il predestinato e totale governo di Dio.
Questa grande Fonte di religiosa e teologica cultura non deve rimanere sterile e fine a se stessa, anzi innesca rammarico dopo il Concilio lateranense del 1215 che lo condanna per i suoi scritti sulla Trinità, interpretati in modo non dogmatico e antireligioso.
Nonostante siano stati avviati stringenti ed accorati postulati, ancora oggi in itinere, per la sua beatificazione, i dubbi sulla sua condotta dottrinaria non sono stati completamente rimossi, anzi perdura la diffidenza ed Egli umilmente rimane l'Abate Gioacchino, proprio come avrebbe voluto che fosse ricordato in eterno.